Nel febbraio del 2004, un gruppo di amici ha organizzato un viaggio di
scialpinismo esplorativo in Iran, nella zona dei ZHARD KHOU, nel gruppo ben più
esteso dei Monti Zagros.
A livello sciistico la catena montuosa era pressoché inesplorata. Alcuni anni
prima, nel 2001, solamente Piero Ruffino aveva percorso alcuni itinerari sci ai
piedi ed era stato in quella situazione un pioniere nell’esplorazione di queste
bellissime montagne
Partito da Roma il gruppo, composto da Massimo Marconi, Alberto Sciamplicotti,
Luigi Filocamo, Massimo Graziani, Simone Martucci, Giorgio Maddaluno e Alberto
Laglia, è arrivato a Tehran e da qui, dopo un altro volo aereo che li ha
condotti a Iafahan, ha proseguito in auto verso le montagne dei ZHARD KHOU.
Insieme a Farshad e Maijid, due amici iraniani, sono state saliti l’Aab Saephid,
il Koul e Khadang, una cima senza nome e l’Haftanan, montagne situate in un
territorio grande almeno quanto tutta la Valle d’Aosta.
Delle sensazioni legate alla salita all’Haftanan e delle emozioni vissute
nell’incontro con le popolazioni locali sono testimoni i due racconti qui di
seguito riportati.
Haftanan - di Massimo Marconi
La cartina l' avevamo studiata, ma la carta dice poco, se poi sono cartine
iraniane scritte in parsi... non dicono nulla.
Invece quando le montagne le vedi è un' altra cosa, ti attraggono, puoi vederne
le forme, i pendii, le valli....
L' Haftanan lo avevamo visto il giorno prima, mentre tornavamo da un canale
magnifico sull' Aab Saefid, e subito avevamo deciso di salirlo. Farshad si era
proposto di accompagnarci, nonostante il suo menisco non fosse pienamente d'
accordo, e di arrivare in cima attraverso un vallone che è la via normalmente
percorsa, oltre ad essere una valle di passaggio dei nomadi del Backthiaristan e
delle loro greggi. Decidiamo di fare la via in due giorni, in quanto l'
avvicinamento è lunghissimo, e cisono dei torrenti da attraversare non sempre in
maniera agevole. Arriviamo in macchina al villaggio chiamato Sheikh Alikhan, e
non capiamo se siamo più curiosi noi dei Backthiari o loro di noi.... ci
spiegano dove guadare il torrente più grande e ci avviamo verso la nostra meta.
Guadiamo subito un torrente, nei pressi del villaggio, e con gli zaini
stracarichi, gli sci e gli scarponi che rischiano di bagnarsi, capiamo subito
che sarà una delle attività più impegnative della cosa.
Con circa quattro chilometri di saliscendi arriviamo al torrente principale, in
fondo ad un elegante intaglio. Ci rendiamo conto che fa molto caldo, nonostante
sia il 29 febbraio, ed il torrente è in piena, guadarlo può essere veramente
pericoloso, e farsi male in un posto così lontano da tutto è l' ultima cosa da
rischiare. Io e Luigi insistiamo di provare a risalire il torrente, e tentare di
trovare un passaggio, e così facciamo. Farshad si sente un po' deluso per non
averci convinto a provarci, oltre il torrente c' è l' imbocco della valle in cui
vuole portarci, ma noi abbiamo già in mente di tentare una cresta che abbiamo
visto in buone condizioni. Infatti pochi chilometri più a monte, in fondo ad un
canalone Luigi scorge un ponte di neve, che benchè instabile ci porta dall'
altra parte del torrente.
In breve usciamo dall' intaglio del torrente e proseguiamo verso nord-ovest,
verso la cresta che ora vediamo bene, e sotto cui decidiamo di piazzare il campo
a 2630 mt. di quota. Farshad è un po' in ansia, per il fatto che non conosce il
pendio, e chissà quanto si fida di noi, e delle nostre valutazioni sul manto
nevoso. La cima da qui non possiamo vederla, ma vediamo una sella da cui
presumiamo potremo vedere tutto l' itinerario. La nottata è magnifica, con tanto
di stelle e luna, siamo veramente isolati, ma avvolti da un manto di montagne
bianche.
La mattina alle 6.30 le attività fervono, bisogna preparare la colazione s
squagliare l' acqua per la salita. Alle 8.00 siamo pronti e si parte, in
direzione della nostra sella, su un pendio ben duro ed aperto. Ci mettiamo
qualche ora ad arrivare alla sella, quota 3500 mt. E da qui si vede infatti
tutto il percorso fino alla cima. Ci sono ancora circa 600 mt. di dislivello, ma
lo sviluppo non riusciamo a determinarlo, e scoraggia qualcuno del gruppo. Io e
Massimo siamo ben determinate ad infilarci su quella cresta, e si convince anche
Farshad. Si percorre tutto il lato occidentale, a mezza costa su pendii ripidi
ed aperti e qualche roccia, e puntiamo ad altre due selle, quota 3800 e 3900
prima del pendio finale. Qui il fiato comincia a mancare, siamo intorno ai 4000
mt., anche perchè debbo rispondere ad una sequela di domande di Farshad sul
rischio valanghe, la neve il vento.... abbiamo intorno un mondo bianco, e anche
lui comincia ad intravedere la possibilità di arrivare in cima, e si entusiasma,
oltre ad acquistare più fiducia in noi. Per lui non è facile in Iran assimilare
tecniche di scialpinismo, dove gli unici a praticarlo sono i pochi scialpinisti
occidentali, per noi con le scuole i corsi i manuali, tante cose sembrano
banali, inoltre con tante persone da cui imparare è facile sentirsi sicuri con
un po' di esperienza. Sono felice di poter aiutare, nel mio piccolo, Farshad a
migliorare il suo lavoro, in un paese dove non è facile, dove molte cose cose
non sono facili.
Ma oramai facile è percorrere il pendio finale dopo l' ultima affilata cresta
che si affaccia sulla enorme parete nord-est della montagna, altre poche svolte
che ora Farshad esegue alla perfezione, e siamo ubriachi di felicità, siamo in
vetta, quota 4.080 mt. Ci abbracciamo, Farshad ci ringrazia, io e Massimo
ringraziamo lui, dobbiamo ringraziare soprattutto chi ci ha regalato questa
giornata magnifica con un panorama di cime a perdita d' occhio, e senza un filo
di vento. Abbiamo percorso per la prima volta un itinerario con gli sci
assolutamente magnifico, su una cima veramente superba.
Il tempo di fare un po' di foto e mangiare qualcosa e ci prepariamo a scendere,
sono le 14,20.
Mentre Farshad allaccia gli scarponi gli salta una delle leve di bloccaggio,
provvediamo con un cordino, che si rivelerà funzionare meglio della leva,
possiamo cominciare a scendere.
Sciare, dopo una salita del genere, è qualcosa di liberatorio, di appagante,
accorgersi poi di avere una neve primaverile sotto gli sci rende euforici,
scendiamo urlando la nostra gioia ad ogni curva, e ce ne sono tante di
curve..... Se poi ti volti a guardarle sembrano quadri disegnati su tavolozze di
neve, che fra qualche tempo non esisteranno più. In questo mondo bianco è tutto
effimero, la neve ,l' acqua, ma le persone spero di no, non è effimero il
ricordo di questa esperienza, non è effimera l' amicizia che ci lega, che si
salda anzi, con questi ricordi.
Qualcuno ci aspetta alla prima sella, ci vengono incontro, per sapere comè...
scendiamo insieme alle nostre tende, che sono quasi mille metri più in basso, e
che dovremo dis fare e reinfilare negli zaini, insieme al ricordo di una
giornata bellissima.
La sera stessa, chiedo a Farshad cosa significa Haftanan e mi risponde che la
traduzione è sette persone, mi sembra strano ma non mi meraviglio. La settimana
dopo siamo ad Esfahan, e la nostra guida turistica in una moschea chiede i
biglietti per noi, si affaccia al botteghino e dice “haftanan”,
noi ci guardiamo stupiti, e ci diciamo che gli ha detto “sette persone” ,
conosciamo quella parola, siamo noi sette, siamo Haftanan, la “nostra” montagna.
Le regole del thé - di Alberto Sciamplicotti
La zolletta di zucchero, stretta fra i denti, si scioglie lentamente al
passaggio del liquido caldo. E’ così che da queste parti si sorseggia il thé:
versato bollente in piccoli bicchieri di vetro chiaro, senza latte e senza
limone, ma solo con un po’ di zucchero malamente raffinato, tenuto fra i denti
ad addolcirne il sapore. Il primo trucco è quello di resistere alla tentazione
di considerare la zolletta dalle forme irregolari una caramella da succhiare:
deve rimanere lì, all’angolo della bocca, stretta fra due molari quasi fosse un
piccolo sasso, mentre il thé bollente le scorre intorno consumandola lentamente.
E’ una cosa che si impara poco alla volta e solo con la pratica. Il secondo
trucco invece è più istintivo e per questo alla portata di tutti. Nasce
direttamente dall’esperienza della prima volta che si beve il thé in Iran o in
uno qualsiasi degli stati del Medio-Oriente. Il cay viene servito sempre
bollente, miscelando direttamente sul vassoio di portata il forte infuso,
preparato anche diverse ore prima, con nuova acqua calda. Più la temperatura di
questa è alta, più si fonderà armoniosamente con la base dell’infuso stemperando
quel retrogusto di ossido che si potrebbe altrimenti percepire. Il trucco di
bere a piccoli, decisi e rumorosi sorsi, aspirando aria per raffreddare il
liquido, viene da solo la prima volta che il thé arriva sulla lingua a piena
temperatura. La conseguente spiacevole e alquanto duratura sensazione di assenza
di sapore, ma sopratutto il dolore provato in quell’occasione, saranno maestrI
nell’apprendimento delle regole locali di degustazione.
“La lentezza” penso sorseggiando dal bicchiere tenuto fra pollice e medio, “la
lentezza è la regola, il non avere fretta.”
Spingo con la guancia e la lingua il thé verso la zolletta tenuta fra i denti. I
colori del tappeto sul quale siamo seduti, marrone, rosso, giallo scuro e verde,
sembrano persino essere più luminosi per la forza con la quale sono colpiti da
questo sole, malgrado tutto, ancora nemmeno primaverile. Giorgio è preso in una
conversazione con l’anziano uomo che sembra essere la maggiore autorità del
piccolo villaggio backthiari di Sheikh alikhan. Parlano aiutati dal nostro amico
iraniano Majid che infila qua e là una parola in parsi, una in inglese o una in
stentatissimo italiano, per aiutare la comprensione di una parte o dell’altra
del discorso. Simone, seduto sul tappeto fra Giorgio e me, segue il lento
scambio di battute, domande e risposte. Davanti a lui un bicchiere pieno di thé
bollente. Ogni tanto allunga la mano, lo solleva e lo porta alla bocca per una
breve sorsata. Lo stesso faccio io, come gli altri uomini seduti sul tappeto. A
volte prima di bere si annuisce ad una frase o si aggiunge un piccolo commento a
quanto sentito. Seduti in circolo, uno di fronte all’altro, si assapora così
lentamente la conversazione, come stiamo facendo con il nostro thé, non più
italiani e non più backthiari, ma solo uomini curiosi delle rispettive
differenze ed esperienze. Tutto il villaggio sembra partecipare a questo
incontro di culture. Le donne, sedute una vicina all’altra su un rialzo del
terreno, ci osservano intessendo fra loro una fitta rete di commenti mentre i
bambini, i più curiosi, si avvicinano ridendo alle nostre scarpe sfilate e
lasciate fuori dal tappeto, come vuole la tradizione, per non sporcare con la
terra della strada il simbolo della casa e dell’ospitalità. Dietro chi è seduto,
come in una scala gerarchica, vengono gli adolescenti, quelli che, non più
bambini, non sono ancora entrati a pieno titolo nel mondo degli adulti.
Nel circolo della conversazione noi occupiamo il posto d’onore: seduti al centro
del lato lungo del tappeto, con le spalle poggiate al muro d’intonaco grezzo
della casa. Con un solo sguardo, tutto di questo momento è così sotto i nostri
occhi: gli uomini dai baffi curati con indosso il lungo gilet di lana bianca e
nera, caratteristico dei nomadi di questa regione, le donne dalle vesti colorate
e ornate di pendenti di giada, lapislazzuli e argento, i bambini dai piedi
scalzi nonostante la neve intorno e sullo sfondo le incredibili montagne della
catena degli Zagros, la ragione per cui siamo arrivati fin qui. Da seduti, le
vediamo come incorniciate dalla fila delle teste di chi abbiamo davanti e dalle
bandiere colorate di verde e rosso, i colori dell’Islam e del martirio, simboli
delle ricorrenze che si sono succedute in questi giorni, appese al tetto della
veranda.
Con nelle orecchie le parole in inglese, parsi e italiano lo sguardo segue
allora la lunga dorsali di roccia, colma di neve, che ho di fronte, cerca le
valli, le possibili creste da salire, individua il pendio tripartito dell’Aab
Saefid, dove gli altri nostri compagni di viaggio stanno in questo momento
montando un nuovo campo, per trovare alla fine la vetta piramidale
dell’Haftanan.
Sorseggio altro thé, provando a centellinare la quantità di liquido in modo da
trovare l’equilibrio fra il calore e la giusta soluzione che possa sciogliere lo
zolletta di zucchero che ho ancora fra i denti. La voce allegra di Maijd
cantilena oscillante una risposta in inglese a Giorgio, mentre un uomo, seduto
di fronte a me, si sposta sorridendo per far posto sul tappeto a un anziano
dalla barba lunga e dal viso cotto dal sole.
Prendo un’altra zolletta di zucchero e la stringo fra i denti e la guancia.
Anche al nuovo arrivato viene offerto un bicchiere di thé e i semplici movimenti
che accompagnano la bevenda vengono ripetuti ancora, come un gioco dalle regole
semplici ma precise dove la lentezza non è indolenza o l’inutile prolissità dei
gesti, ma la calma e la flemma donate dalla tranquillità dell’esperienza. Sembra
che in qualche modo il respiro delle montagne, percorse da questa gente da tempo
immemorabile insieme agli armenti, sia divenuto ad essere parte intima della
loro stessa vita. Come il sorgere del sole o il succedersi delle stagioni.
Il vento muove leggermente le bandiere, rese trasparenti dalla luce filtrata del
sole, scoprendo alternativamente le cime più alte delle montagne. Anche
l’Haftanan, nella cui valle di accesso avevamo piantato due notti prima le
nostre tende, appare e scompare secondo il desiderio del vento. Ma non c’è
fretta nel rivederlo quando uno dei drappi lo nasconde alla nostra vista. Basta
avere la pazienza di aspettare la prossima brezza mentre lentamente sorseggiamo
un altro poco del nostro cay bollente. |